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Modelli di inserimento dei luoghi nel flusso globale del capitalismo, tra continuità, crisi e cambiamento.

Indice di questo articolo

Breve saggio ispirato dalla lettura del volume: “La coscienza dei luoghi”, di Giacomo Becattini

di Massimo Bressan (Iris, Prato)

Uno dei problemi, forse il più importante, che si pone Giacomo Becattini in questo libro è quello di comprendere ed immaginare come “traghettare il nucleo centrale della nostra industria manifatturiera oltre la crisi” (Becattini, 2015: 19). Un problema particolarmente complesso, che viene discusso in una fase storica in cui l’orizzonte spaziale del capitalismo è sempre più spinto verso la dimensione globale del mercato, ed ogni limite o confine che si pone al suo interno si presenta come un ostacolo da superare. Questo processo agisce in modo destabilizzante sui confini geopolitici esistenti. E’ in questo senso che Mezzadra e Neilson parlano di “frontiere del capitale” (2013: 61-93), intendendo rappresentare alcuni dei modi in cui la tendenza espansiva del capitale agisce nella produzione dello spazio economico, sociale e urbano in cui i cittadini vivono, lavorano e si muovono.
All’interno di questo contesto, come Becattini ci ha insegnato, i distretti industriali hanno prosperato per alcuni decenni riuscendo a vendere i loro prodotti nei mercati mondiali, attraversando i confini degli Stati, cogliendo le opportunità e fronteggiando i rischi che venivano dal percorso di costruzione e rafforzamento dello spazio globale del capitalismo moderno – dagli accordi di Bretton Woods alla formazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, dalla progressiva riduzione delle tariffe applicate alla circolazione delle merci tra gli Stati, all’ingresso, a tutti gli effetti, della Cina nel mercato globale, fino a giungere ad una fase che gli stessi autori, Becattini e Magnaghi, definiscono “autonomizzazione del capitale” (Becattini, 2015: 143-154).
L’apertura dei luoghi ai flussi globali del capitale e del lavoro ha spesso implicato la costruzione di nuove frontiere, o zone di separazione, che agiscono proprio laddove la frizione tra il potere degli Stati e la forza del Capitale produce tangibili contraddizioni tra la libertà di movimento delle merci e quella delle persone. Un processo che procede attraverso la costruzione di muri e dispositivi di controllo del flusso delle nuove masse di migranti lavoratori, ma che produce anche ambiti di separazione all’interno delle nostre città e distretti industriali – basti pensare ai casi di segregazione che hanno accompagnato lo sviluppo dell’urbanizzazione nei paesi industrializzati1, e più recentemente, alla trasformazione della città fabbrica nel distretto industriale di Prato, il luogo della mixité, in uno dei quartieri più rappresentativi, e segregati, della presenza di nuclei consistenti di famiglie di migranti lavoratori cinesi in Europa (Cfr. Bressan e Tosi Cambini, 2011; Bressan e Krause, 2014).

Sullo sfondo di questo scenario caratterizzato dalla scomposizione degli ambiti territoriali nazionali, dalla formazione di mercati continentali, da una nuova divisione internazionale del lavoro, dalla costruzione di autonomi spazi logistici in cui il capitale organizza i flussi di merci e la costruzione del profitto, la prospettiva che Becattini propone è quella di “un mondo popolato non da Stati-Nazione ma da cluster, proto-cluster e resti di cluster e/o distretti industriali, proto-distretti industriali e resti di distretti industriali”. Una prospettiva in cui “il motore dello sviluppo e della progressiva articolazione del mondo consiste in un gruppo di persone all’interno di stabili e auto-riproducenti comunità” (Becattini, 2015: 43).
Il legame tra economie e culture radicate nei territori (la coscienza dei luoghi) è dunque la chiave della proposta della teoria becattiniana; un legame che era stato chiaramente posto fin dalla sua definizione del concetto di distretto industriale e, successivamente, di sviluppo locale, ma che, non a caso, si ripropone oggi a fronte di una crisi che mette in discussione la capacità riproduttiva dei sistemi locali a lungo studiati dall’autore. L’attenzione di Becattini è orientata alla comprensione della durata dei fenomeni economici, e in questa prospettiva il suo sguardo non può che essere focalizzato sul nesso tra evento (la crisi) e struttura (i luoghi e la loro coscienza, o le culture). Una prospettiva che egli ha sviluppato con un percorso di grande interesse, che ha evidenti connessioni con la riflessione metodologica degli storici, come Fernand Braudel, e naturalmente con quella degli antropologi.
Proprio un antropologo, che ha spesso sviluppato la sua ricerca in una prospettiva storica, Marshall Sahlins, nella prima metà degli anni '80 aveva avviato la sua personale de-costruzione della dicotomia “evento/struttura” evidenziandone la costante dialettica: "Dobbiamo riconoscere sul piano teorico, attribuendovi una collocazione concettuale, il passato nel presente, la sovrastruttura nell'infrastruttura, lo statico nel dinamico, il cambiamento nella stabilità." (Sahlins, 1986, XVIII). Sahlins ricostruiva il rapporto fra struttura (cultura) ed eventi storici a partire da queste tre proposizioni: i) le strutture socio-culturali costituiscono i mezzi e i modi della produzione e del consumo degli eventi; ii) le simbologie socio-culturali costituiscono i mezzi e i modi della classificazione e della interpretazione degli eventi; iii) gli eventi hanno la potenzialità di mettere in crisi le strutture - socio-culturali - con cui entrano in contatto (cfr. Faubion, 1993, 43/44).

Per gli antropologi dunque, non si tratta evidentemente di leggere la continuità dei tratti di una “cultura locale” attraverso gli eventi storici al fine di isolarne l’essenza o la purezza dei contenuti; ma semmai di comprendere quali sono le particolari modalità che caratterizzano il cambiamento di una cultura2, gli eventi che ne mettono in crisi i caratteri ritenuti strutturali o distintivi, la capacità di reagire e trasformarsi, incorporando e manipolando nuovi significati. In questa prospettiva le crisi sono un particolare tipo di evento, e proprio per questo richiedono una spiegazione. Le crisi possono superare o ridurre le aspettative della cultura, scrivono Knight e Stewart (2016: 4); interrompono le routine (il senso comune) delle normali circostanze proprio in quanto la cultura non può replicare efficacemente i propri modelli narrativi nei modi attesi. Le crisi evidenziano una interruzione nella riproduzione sociale, scrivono Narotzky e Besnier. Le crisi si pongono in contrasto con le condizioni di stabilità che consentono agli individui di progettare il loro futuro (2014: 7). Tuttavia, continuano gli autori, esiste un’ampia evidenza del fatto che l’instabilità e l’incertezza sono state la norma in molti contesti sociali e culturali. In tali contesti le persone, i gruppi e le istituzioni sociali hanno avuto modo di confrontarsi ripetutamente con l’imprevedibile. Le crisi economiche fanno parte dell’orizzonte delle aspettative, dell’inventario delle narrazioni e delle spiegazioni narrative. Esse innovano le pratiche e le stesse istituzioni, mitigando gli effetti dell’instabilità, innescando meccanismi sociali che forniscono una nuova prospettiva temporale di continuità – senza tuttavia eliminare l’incertezza delle condizioni economiche e politiche.
Cerchiamo dunque di approfondire il problema della riproduzione sociale dei sistemi locali dalla prospettiva dell’antropologia culturale e di portare in questo modo un piccolo contributo alla discussione dei contenuti del volume di Giacomo Becattini.

1 Cfr., all’interno del volume, il capitolo “La dissoluzione dei luoghi”, pag. 129 e segg.; Bagnasco, 2003;  Secchi, 2013; Signorelli, 1996.
2 La definizione di cultura costituisce di per se un ambito di grande dibattito nella storia dell’antropologia culturale; prendiamo come punto di riferimento in questo contesto l’argomentazione di Ulf Hannerz (1998).