Modelli di inserimento dei luoghi nel flusso globale del capitalismo, tra continuità, crisi e cambiamento.

Breve saggio ispirato dalla lettura del volume: “La coscienza dei luoghi”, di Giacomo Becattini

di Massimo Bressan (Iris, Prato)

Uno dei problemi, forse il più importante, che si pone Giacomo Becattini in questo libro è quello di comprendere ed immaginare come “traghettare il nucleo centrale della nostra industria manifatturiera oltre la crisi” (Becattini, 2015: 19). Un problema particolarmente complesso, che viene discusso in una fase storica in cui l’orizzonte spaziale del capitalismo è sempre più spinto verso la dimensione globale del mercato, ed ogni limite o confine che si pone al suo interno si presenta come un ostacolo da superare. Questo processo agisce in modo destabilizzante sui confini geopolitici esistenti. E’ in questo senso che Mezzadra e Neilson parlano di “frontiere del capitale” (2013: 61-93), intendendo rappresentare alcuni dei modi in cui la tendenza espansiva del capitale agisce nella produzione dello spazio economico, sociale e urbano in cui i cittadini vivono, lavorano e si muovono.
All’interno di questo contesto, come Becattini ci ha insegnato, i distretti industriali hanno prosperato per alcuni decenni riuscendo a vendere i loro prodotti nei mercati mondiali, attraversando i confini degli Stati, cogliendo le opportunità e fronteggiando i rischi che venivano dal percorso di costruzione e rafforzamento dello spazio globale del capitalismo moderno – dagli accordi di Bretton Woods alla formazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, dalla progressiva riduzione delle tariffe applicate alla circolazione delle merci tra gli Stati, all’ingresso, a tutti gli effetti, della Cina nel mercato globale, fino a giungere ad una fase che gli stessi autori, Becattini e Magnaghi, definiscono “autonomizzazione del capitale” (Becattini, 2015: 143-154).
L’apertura dei luoghi ai flussi globali del capitale e del lavoro ha spesso implicato la costruzione di nuove frontiere, o zone di separazione, che agiscono proprio laddove la frizione tra il potere degli Stati e la forza del Capitale produce tangibili contraddizioni tra la libertà di movimento delle merci e quella delle persone. Un processo che procede attraverso la costruzione di muri e dispositivi di controllo del flusso delle nuove masse di migranti lavoratori, ma che produce anche ambiti di separazione all’interno delle nostre città e distretti industriali – basti pensare ai casi di segregazione che hanno accompagnato lo sviluppo dell’urbanizzazione nei paesi industrializzati1, e più recentemente, alla trasformazione della città fabbrica nel distretto industriale di Prato, il luogo della mixité, in uno dei quartieri più rappresentativi, e segregati, della presenza di nuclei consistenti di famiglie di migranti lavoratori cinesi in Europa (Cfr. Bressan e Tosi Cambini, 2011; Bressan e Krause, 2014).

Sullo sfondo di questo scenario caratterizzato dalla scomposizione degli ambiti territoriali nazionali, dalla formazione di mercati continentali, da una nuova divisione internazionale del lavoro, dalla costruzione di autonomi spazi logistici in cui il capitale organizza i flussi di merci e la costruzione del profitto, la prospettiva che Becattini propone è quella di “un mondo popolato non da Stati-Nazione ma da cluster, proto-cluster e resti di cluster e/o distretti industriali, proto-distretti industriali e resti di distretti industriali”. Una prospettiva in cui “il motore dello sviluppo e della progressiva articolazione del mondo consiste in un gruppo di persone all’interno di stabili e auto-riproducenti comunità” (Becattini, 2015: 43).
Il legame tra economie e culture radicate nei territori (la coscienza dei luoghi) è dunque la chiave della proposta della teoria becattiniana; un legame che era stato chiaramente posto fin dalla sua definizione del concetto di distretto industriale e, successivamente, di sviluppo locale, ma che, non a caso, si ripropone oggi a fronte di una crisi che mette in discussione la capacità riproduttiva dei sistemi locali a lungo studiati dall’autore. L’attenzione di Becattini è orientata alla comprensione della durata dei fenomeni economici, e in questa prospettiva il suo sguardo non può che essere focalizzato sul nesso tra evento (la crisi) e struttura (i luoghi e la loro coscienza, o le culture). Una prospettiva che egli ha sviluppato con un percorso di grande interesse, che ha evidenti connessioni con la riflessione metodologica degli storici, come Fernand Braudel, e naturalmente con quella degli antropologi.
Proprio un antropologo, che ha spesso sviluppato la sua ricerca in una prospettiva storica, Marshall Sahlins, nella prima metà degli anni '80 aveva avviato la sua personale de-costruzione della dicotomia “evento/struttura” evidenziandone la costante dialettica: "Dobbiamo riconoscere sul piano teorico, attribuendovi una collocazione concettuale, il passato nel presente, la sovrastruttura nell'infrastruttura, lo statico nel dinamico, il cambiamento nella stabilità." (Sahlins, 1986, XVIII). Sahlins ricostruiva il rapporto fra struttura (cultura) ed eventi storici a partire da queste tre proposizioni: i) le strutture socio-culturali costituiscono i mezzi e i modi della produzione e del consumo degli eventi; ii) le simbologie socio-culturali costituiscono i mezzi e i modi della classificazione e della interpretazione degli eventi; iii) gli eventi hanno la potenzialità di mettere in crisi le strutture - socio-culturali - con cui entrano in contatto (cfr. Faubion, 1993, 43/44).

Per gli antropologi dunque, non si tratta evidentemente di leggere la continuità dei tratti di una “cultura locale” attraverso gli eventi storici al fine di isolarne l’essenza o la purezza dei contenuti; ma semmai di comprendere quali sono le particolari modalità che caratterizzano il cambiamento di una cultura2, gli eventi che ne mettono in crisi i caratteri ritenuti strutturali o distintivi, la capacità di reagire e trasformarsi, incorporando e manipolando nuovi significati. In questa prospettiva le crisi sono un particolare tipo di evento, e proprio per questo richiedono una spiegazione. Le crisi possono superare o ridurre le aspettative della cultura, scrivono Knight e Stewart (2016: 4); interrompono le routine (il senso comune) delle normali circostanze proprio in quanto la cultura non può replicare efficacemente i propri modelli narrativi nei modi attesi. Le crisi evidenziano una interruzione nella riproduzione sociale, scrivono Narotzky e Besnier. Le crisi si pongono in contrasto con le condizioni di stabilità che consentono agli individui di progettare il loro futuro (2014: 7). Tuttavia, continuano gli autori, esiste un’ampia evidenza del fatto che l’instabilità e l’incertezza sono state la norma in molti contesti sociali e culturali. In tali contesti le persone, i gruppi e le istituzioni sociali hanno avuto modo di confrontarsi ripetutamente con l’imprevedibile. Le crisi economiche fanno parte dell’orizzonte delle aspettative, dell’inventario delle narrazioni e delle spiegazioni narrative. Esse innovano le pratiche e le stesse istituzioni, mitigando gli effetti dell’instabilità, innescando meccanismi sociali che forniscono una nuova prospettiva temporale di continuità – senza tuttavia eliminare l’incertezza delle condizioni economiche e politiche.
Cerchiamo dunque di approfondire il problema della riproduzione sociale dei sistemi locali dalla prospettiva dell’antropologia culturale e di portare in questo modo un piccolo contributo alla discussione dei contenuti del volume di Giacomo Becattini.

1 Cfr., all’interno del volume, il capitolo “La dissoluzione dei luoghi”, pag. 129 e segg.; Bagnasco, 2003;  Secchi, 2013; Signorelli, 1996.
2 La definizione di cultura costituisce di per se un ambito di grande dibattito nella storia dell’antropologia culturale; prendiamo come punto di riferimento in questo contesto l’argomentazione di Ulf Hannerz (1998).

Un luogo, Prato: tra immaginazione e globalizzazione

Alla fine degli anni ’70 l’opinione pubblica europea si occupò del caso Prato a proposito del rapido successo delle sue industrie tessili che, ben presto, misero in ginocchio la gran parte dei loro concorrenti. Nel 1978 la rivista francese di moda Elle pubblicava un articolo che accostava Prato all’India, per le condizioni e lo sfruttamento del lavoro; la città veniva definita l’inferno del tessile: “La città andò in subbuglio, vennero coinvolti il mondo politico ed economico, ma reagì pressoché compatta, e dimenticò i contrasti interni”. Sulla stampa locale persino il sindacato unitario dei lavoratori tessili intervenne accusando il giornalista di essere stato in città solo un paio d’ore, e che la situazione del lavoro a Prato era di sostanziale correttezza (cfr. Cammelli, 2014: 28). Intorno alle minacce alla competitività dell’industria locale si ricompone un fronte omogeneo che rimuove il dibattito locale sulle condizioni contrattuali e della salute sul lavoro per difendere l’immagine della Città che allora era evidentemente considerato un fattore di competitività sui mercati europei e mondiali.
Ancora dalla Francia, ma questa volta dal prestigioso quotidiano Le Monde, arriva nel 1980 un articolo che parla di Prato con un titolo che, a posteriori, sembra quasi una provocazione: Hong Kong all’italiana (Maurus, 1980). La giornalista evidenzia la capacità dei pratesi di rispondere ad ogni tipo di problema che venga posto dalle esigenze produttive, sul piano degli investimenti per il rinnovo dei macchinari o per provvedere alla dotazione di sistemi di depurazione delle acque industriali, ma con una certa ironia evidenzia anche i pesanti effetti che lo sviluppo ha determinato sulla forma e funzionamento della città, sulla salute dei cittadini e lavoratori. Nell’articolo si usa il termine “Auto-exploitation”, un termine che, afferma la giornalista, ha un’origine pratese. Autosfruttamento, più di recente utilizzato per descrivere l’atteggiamento dei migranti di origine cinese che vivono e lavorano a Prato3.

“On croirait rêver, n'était la ville. Sale, grise, défigurée par les ateliers sauvages, défoncée par les camions. Et puis une paille: 10.000 accidents du travail en 1978, dont 500 ont eu des conséquences définitives. Certains ouvriers gagnent ici 1 million de lires par mois, mais ils y laissent trop souvent, qui un poumon, brûlé par les vapeurs d'acide, qui un doigt, pris dans les cardes, qui l'ouïe - 80 % des salariés du tissage parvenant à la retraite sont sourds... "Auto-exploitation", le mot est, paraît-il, pratésien. Il explique peut-être que, curieusement un nombre croissant de jeunes refusent d'entrer dans ce paradis.” (Maurus, 1980) 4.

Questo interessante passaggio del dibattito pubblico sulle condizioni di lavoro e l’auto-sfruttamento dei lavoratori pratesi (inclusi i toscani immigrati dalla campagna mezzadrile e i meridionali immigrati nel distretto tessile, ma, evidentemente, non ancora le famiglie di migranti lavoratori provenienti dallo Zhejiang e dalle altre regioni del Sud Est della Cina) pone allarmanti interrogativi sulla costruzione sociale della figura del migrante5: che si diventi cinesi lavorando a Prato ? Oppure: che le condizioni di lavoro nelle fasi di avvio dello sviluppo di una regione industriale siano simili ovunque - ancor più se accadono nello stesso luogo ? O, semplicemente: che il repertorio dei ruoli che utilizza l’autrice del brillante articolo trovi una forma di adattamento semantico attraverso lo spazio e il tempo?

Il più recente flusso di immigrati, quello che ha condotto a Prato migliaia di cinesi provenienti prevalentemente dallo Zhejiang, ha riproposto una dinamica produttiva, con la connessa grande mobilità di merci e persone, che si esprime attraverso una fitta rete di relazioni produttive, un ritmo di crescita che ricorda i tempi del decollo del distretto industriale tessile. Ma le storie delle persone che passano nelle strade, le lingue parlate, le merci che sono vendute nei negozi dei quartieri e quelle che circolano nei furgoni che attraversano la città sono diverse da quelle di cinquant’ anni fa. La concentrazione di famiglie e gruppi di lavoratori cinesi ha avuto l’effetto di rallentare il processo di trasformazione dello spazio urbano, specie di quella parte che Secchi definì la “città fabbrica”, connotata dalla mixité degli ambiti della vita privata e lavorativa (Cfr. Secchi et al., 1996); la presenza degli immigrati cinesi ha reso ancora funzionale la sua particolare struttura. Ai tempi del loro arrivo in città, scriveva Becattini nella Storia di Prato a proposito dell’immigrazione cinese: “più di un osservatore, nel descriverne la crescita rapidissima, è stato indotto a rievocare il periodo eroico della nascita e del decollo del distretto pratese: stessa feroce applicazione al lavoro, stessa abilità manuale, stesso radicamento familiare.” (Becattini 2000: 181). Mentre la retorica politica enfatizzava la distanza e la separazione tra i gruppi di residenti – così come delle imprese –, le interazioni tra lavoratori e imprenditori, proprietari locali (italiani) e affittuari immigrati, proseguivano senza interruzione. La stessa opinione pubblica locale reagisce a questo cambiamento con una intensità che ricorda le campagne di reazione agli articoli della stampa internazionale che dipingevano i lati oscuri, o sommersi, dell’impressionante sviluppo economico degli anni ’70. Arrivano ancora una volta i giornalisti internazionali, in numero maggiore di prima6; le descrizioni si concentrano sulle contraddizioni del processo di globalizzazione, sul modo in cui la competizione economica determina le condizioni di lavoro e incide nei contesti locali, modificandone fortemente le dinamiche quotidiane e la composizione sociale, sulle molteplici e talvolta tragiche dimensioni dell’autosfruttamento.

Autosfruttamento: la dimensione sociale ed economica delle aspirazioni

In alcuni articoli usciti verso la fine degli anni ’90 sul quotidiano Il Manifesto7, Becattini affronta il tema dello sviluppo manifatturiero nelle aree svantaggiate del paese, le regioni del Sud dell’Italia, ed introduce il tema dell’autosfruttamento. Se un processo produttivo articolabile in fasi distinte, che culmina nella produzione di beni a domanda differenziata e variabile, si radica in un contesto di economia depressa – scrive Becattini – può intercettare “ritagli di tempo” di lavoratori e famiglie, innescando un processo di apprendimento tecnico e imprenditoriale che mobiliterà elementi della tradizione e risorse locali al fine di rispondere alle domande dei mercati particolari con cui tale contesto è entrato in contatto. Prendiamo il tessile, o l’abbigliamento, scomponiamo la produzione del semilavorato (pezza) o prodotto finito (capo d’abbigliamento) nelle singole fasi produttive che richiedono particolari macchine ed abilità, e ad ognuna di queste fasi facciamo corrispondere un lavoratore, una famiglia o una piccola impresa. Si tratta di un modello produttivo che richiede la presenza di uno o più committenti che conoscano i “mercati particolari” e che siano in grado di coordinare i vari passaggi del processo di produzione.
Nella fase di avvio della relazione tra i committenti (imprenditori) e i lavoratori (autonomi, artigiani, operai), le condizioni contrattuali, esplicite o nascoste nelle pieghe del sommerso, potranno includere una certa dose di autosfruttamento nel lavoro e di deprivazione della vita familiare, ma “a ogni giro” – commenta Becattini - aumenterà in quel luogo e nei gruppi coinvolti, l’accumulazione di competenze pratiche specifiche che, nel tempo, consentiranno di sviluppare una esperienza diretta della logica dei mercati e di facilitare l’accesso alle conoscenze tecniche. Per Becattini questa è la migliore forma di politica industriale, che può mobilitare capacità e mestieri relegati ad ambiti sociali ed economici divenuti nel tempo marginali, promuovere le relazioni tra luoghi (imprese ed istituzioni) non così distanti e portatori di risorse e vantaggi complementari, favorire l’apprendimento di abilità organizzative e mercantili.

“Certo, uno che osservi il fenomeno dall’esterno, a mente fredda diciamo, ci può vedere una mistura allucinante di sfruttamento ed autosfruttamento, ma se, interrogando i protagonisti con spirito aperto, egli cerca di capire di quali aspettative quei sacrifici sono carichi, concluderà, in molti casi, che in quel caos c’è una logica economica non banale …“ (Becattini, 1998: 177)

Il futuro è un fatto culturale sostiene l’antropologo Arjun Appadurai (2014), il futuro viene immaginato, ad esempio grazie alla nostra capacità di avere aspirazioni (desideri, preferenze, scelte, progetti): “le aspirazioni fanno parte di un più ampio insieme di idee morali e metafisiche, derivanti da norme culturali più ampie. Le aspirazioni non sono mai semplicemente individuali” (Appadurai, 2014: 257). Le aspirazioni si traducono in concreti modelli sociali, in idee, regole, forme di famiglia, di lavoro, di proprietà, diritto e consumo. Ma in nessuna società la capacità di aspirare è distribuita uniformemente. I membri più poveri della società hanno meno opportunità di esercitare questa capacità di orientamento, tra l’immaginazione e l’azione nel mondo. E’ in un simile quadro, in modo diverso in ogni luogo e tempo, che l’autosfruttamento (orari di lavoro particolarmente intensi, tempo ridotto per la cura dei figli da parte dei genitori, promiscuità tra gli spazi della vita familiare e quelli del lavoro, scarsa attenzione per la salute e l’igiene, ecc.) diventa moralmente accettabile. Esiste dunque una “logica economica non banale” (Becattini) che giustifica i sacrifici nel tempo presente nel quadro di una prospettiva di gratificazione morale e materiale differita nel tempo futuro.
L’ingresso nei circuiti dei mercati particolari (che si costruiscono sulla base di relazioni ripetute di reciproca conoscenza e fiducia fra i contraenti, imprese conto terzi, intermediari e imprese finali) consente anche a chi si trova in una condizione di subalternità, e dispone di mezzi cognitivi e materiali limitati, di esercitare quella capacità di aspirazione che si configura come capacità di orientamento attraverso l’inventario dei ruoli (percorsi e carriere) disponibili nell’orizzonte culturale locale, di rompere la relazione di dipendenza che riduce le occasioni di immaginare la propria azione economica nel tempo8.
Queste considerazioni trovano una forte assonanza con un noto aforisma di Becattini, contenuto in uno dei suoi principali scritti (pubblicato nel 1989) e che descrive gli aspetti cognitivi che sono connessi alla spiccata mobilità propria del mercato del lavoro di un distretto industriale: “L'etica del lavoro e dell'attività che prevale nel distretto statuisce che ciascuno debba cercare «la scarpa per il suo piede» senza mai darsi per vinto.” (Becattini, 2000a: 63). Comportamenti che sono mossi da significati e valori (fattori intangibili) che Becattini individua nella “coppia insoddisfazione-speranza” 9, e che hanno proprio la capacità di muovere l’azione individuale, e la produttività del lavoro, all’interno di un processo collettivo di costruzione del tempo futuro.

3 Il tema dell’autosfruttamento compare fin nei primi scritti sulla presenza cinese a Prato. Berti e Valzania ne ripercorrono alcuni passaggi e osservano: “Fin da subito, infatti, il lavoratore cinese sembrava riprodurre alcune tra le principali caratteristiche che erano state proprie degli artefici delle fortune del distretto tessile: forte capacità imprenditoriale, organizzazione della propria attività economica su una base familiare e autosfruttamento lavorativo.” (Berti e Valzania, 2013: 46).
4 “Sembrava di sognare, non era una città. Sporca, grigia, sfigurata dai laboratori selvaggi, dissestata dai camion. E poi un dettaglio: 10.000 incidenti sul lavoro nel 1978, di cui 500 con conseguenze definitive. Alcuni operai guadagnano un milione di lire al mese, ma ci perdono troppo spesso chi un polmone, bruciato dai vapori d’acido, chi un dito, incastrato nella cardatrice, chi l’udito – l’80% dei salariati della tessitura che arriva alla pensione è sordo … “Auto-sfruttamento” è un termine, a quanto pare, pratese. Spiega probabilmente perché, stranamente, un numero crescente di giovani si rifiuta di entrare in questo paradiso.” (Maurus, 1980).
5 Sui processi di costruzione della cultura dello straniero, cfr. Bracci, 2015.
6 Nell’introduzione al volume “Chinese migration to Europe. Prato, Italy, and Beyond” (Baldassar et al., 2015) si riporta un lungo elenco dei principali articoli pubblicati tra il 2009 e il 2014 dalla stampa internazionale sul caso della immigrazione cinese a Prato; tra le testate figurano: New York Times, BBC News, Bloomberg Businessweek, Chicago Tribune, Deutsche Welle TV, Die Zeit, Financial Times, Global Times, La Repubblica, La Stampa, Los Angeles Times, NBC News, NPR, Reuters, South China Morning Post, Spiegel Online International, The Economist, The Epoch Times, The Guardian, The Wall Street Journal, Truthout, e de Volkskrant.
7 Cfr. “La leggera industria del mezzogiorno”, Il Manifesto 6 Marzo 1998; “Distretti meridionali”, Il Manifesto 7 Marzo 1998; “Una scommessa chiamata sviluppo economico” Il Manifesto 17 Aprile 1998. Gli articoli sono stati poi pubblicati nel volume: Becattini, 1998, pp. 173-187.
8  “La capacità di aspirare è una capacità culturale, nel senso che trae la propria forza dai sistemi locali di valore, di significato, di comunicazione, di dissenso. La sua forma è riconoscibilmente universale, ma la sua forza è nettamente locale e non può essere separata dal linguaggio, dai valori sociali, dalle storie e dalle norme istituzionali che tendono ad essere altamente specifiche.” (Appadurai, 2014: 398).
9 “Questa tendenza incorporata a ridistribuire continuamente le sue risorse umane è una delle condizioni della produttività e concorrenzialità del distretto. Sono qui in azione potenti fattori «intangibili», come la coppia «insoddisfazione-speranza», che diventano tangibili e monetizzabili «nel movimento », e che contribuiscono a quella parte della «lievitazione» continua della produttività del distretto che non è riconducibile a progresso tecnico in senso proprio.” (Becattini, 2000a: 64).

Incontri strutturali tra luoghi e culture

Ancora più complessa, almeno dalla prospettiva spaziale, è l’esperienza delle famiglie transnazionali. In questi casi l’insoddisfazione agisce come stimolo ad intraprendere un percorso migratorio che pone migliaia di chilometri di distanza tra i poli della migrazione familiare (cfr. Ma Mung, 1999; Ambrosini, 2007). Nel corso della ricerca coordinata da Elizabeth Krause e Massimo Bressan10 uno degli intervistati (Peng), durante una intervista con la ricercatrice Fangli Xu, fa riferimento alle motivazioni e alle capacità che rendono talvolta possibile il progetto migratorio, un percorso che incorpora un progetto di vita (cfr. Becattini, 2015: 152-3), che si sviluppa tra l’insoddisfazione presente e le abilità che i protagonisti, e le loro reti, riescono ad attivare:

Fangli: Ho un’altra domanda. La gente dice che i cinesi sono dei gran lavoratori, che sono in grado di sopportare duri orari di lavoro . Cosa ne pensi ?
Peng: I cinesi qui lavorano duramente.
Fangli: Allora pensi che sia una caratteristica della gente di Wenzhou, o tutti i cinesi lavorano duramente?
Peng: No, solo la gente di Wenzhou, non gli altri.
Fangli: Perché? Perché proprio la gente di Wenzhou lavora duramente?
Peng: La gente di Wenzhou pensa che i soldi sono molto importanti.
Fangli: Danno molta importanza ai soldi, giusto ?
Peng: […] La gente di Wenzhou è diversa, se questo mese guadagnano 1.000, il mese prossimo vogliono guadagnare 1.200.
Fangli: E’ perché sono insaziabili ? O sono ambiziosi ?
Peng: Sono ambiziosi e insoddisfatti.

La famiglia trans-nazionale (global household) viene definita dalla economista Maliha Safri e dalla geografa Julie Graham, come una “istituzione formata dalle reti familiari disperse attraverso i confini nazionali” (2010:100). Una istituzione produttiva, che è capace di creare valore attraverso una varietà di mezzi di produzione non-capitalisti, mezzi che appartengono più al dominio della reciprocità che a quello del mercato. Le autrici si riferiscono a tutti quei servizi che una organizzazione familiare riesce ad attivare nel dominio del lavoro domestico e flessibile, come, ad es., la cura dei bambini – ambito importante anche nel caso delle famiglie migranti cinesi di Prato, che si affidano alle reti parentali per la cura dei bambini, in particolare prima dell’età scolare (cfr. Bressan e Krause, 2014). Safri e Graham, nella loro lettura della famiglia transnazionale come unità produttiva, giungono a definire le rimesse dei migranti come una forma di investimento produttivo. (Safri and Graham 2010: 115). Incontri strutturali, come li definisce Krause (2015), che coinvolgono migranti cinesi e cittadini e lavoratori pratesi. Incontri tra luoghi: il modello di sviluppo regionale noto come Wenzhou model e un distretto industriale in transizione. Incontri che collidono con la ristrutturazione globale delle industrie locali e che mobilitano, insieme alle merci, sentimenti, significati e pratiche sociali. Modalità di incontro che accompagnano e danno forma al cambiamento delle culture locali e che producono forme di economie diverse (cfr. Gibson-Graham, 2008), che fanno emergere molte contraddizioni negli apparati normativi degli Stati e del capitale - anche nelle loro articolazioni pratiche locali - nel passato come nel presente. I luoghi si incontrano nei mercati, ma gli incontri più profondi, che radicano le relazioni nelle coscienze e nelle culture, sono quelli che coinvolgono persone, famiglie, generazioni, reti e significati e che generano cosmologie del capitalismo: modalità narrative (dunque cariche di significato) con cui i luoghi integrano e spiegano la loro esperienza del mondo (e del mercato, come luogo di incontro e di scambio con altri luoghi, oggetti, pratiche e culture) “all’interno di qualcosa che sia logicamente ed ontologicamente più inclusivo: il loro sistema del mondo.” (Sahlins, 1998: 4). Che questi incontri siano in grado di frammentare le frontiere del capitale ed aprire ad una prospettiva in cui i luoghi siano il primo e più importante valore relazionale, non lo sappiamo; ma se osserviamo da vicino le dinamiche socio-economiche locali possiamo chiaramente scorgere come le economie siano forgiate da valori e istituzioni non-capitaliste che funzionano.

10 La ricerca, un progetto congiunto tra il Dipartimento di Antropologia della Università del Massachusetts e l’IRIS di Prato, è stata realizzata grazie al sostegno di due Fondazioni: National Science Foundation, “Chinese Immigration and Family Encounters in Italy” (BCS-1157218), e Wenner-Gren Foundation, (ICRG-114), “Tight Knit: Familistic Encounters in a Fast-Fashion District”

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